Il 1989 fu anche l’anno in cui un’iniziativa del Pci sui diritti dei lavoratori in Fiat mise in particolare difficoltà la Direzione aziendale, per il risalto che ebbe sugli organi d’informazione. La cosa era nata all’Alfa di Arese alla fine del 1988 con accuse di discriminazioni nei confronti di militanti sindacali e del Pci e si sviluppò successivamente in tutti gli stabilimenti Fiat, anche con strascichi giudiziari. Fim Fiom Uilm di Milano prepararono una sorta di “libro bianco” sulle discriminazioni all’Alfa, che fu consegnato alle istituzioni; ma nelle altre province non vi furono analoghe iniziative unitarie. L’inchiesta del Pci provocò un’indagine da parte del Ministero del Lavoro che inviò i propri Ispettori nell’azienda; inoltre l’iniziativa generò un dibattito pubblico che coinvolse una parte della Chiesa e alcuni prestigiosi intellettuali come Norberto Bobbio. La Fiat rispose che la campagna del Pci era una montatura strumentale, una “vendetta politica” e, pur non negando che nel complesso corpo aziendale si potevano generare singoli casi di discriminazione assicurava che comunque non rispondevano alle politiche aziendali. In realtà la Fiat era stata sorpresa su un terreno molto delicato e si trovò in imbarazzo a fronte gli aspetti d’immagine che derivavano dalla vicenda. Del resto tutti coloro che conoscevano bene il sistema di relazioni aziendali e i comportamenti delle gerarchie aziendali dopo il 1980, sapevano che vi erano fatti che si collocavano al di fuori di quelle che sono le “corrette relazioni” legalmente e contrattualmente previste tra capi e subordinati. Alcuni anni più tardi, nel 1994, quando molti capi e quadri aziendali furono licenziati dalla Fiat, alcuni di questi confermarono che nel corso degli anni ottanta si era affermato una cultura gestionale impregnata di autoritarismo, che favoriva gli aspetti di prevaricazione a tutti i livelli dell’organizzazione aziendale. Ovviamente provare legalmente questi aspetti presentava alcune difficoltà, poiché erano pochi quelli disponibili a farsi avanti individualmente. Però, dopo questa vicenda la Direzione Fiat fu molto più accorta nelle politiche del personale e rimosse i casi più evidenti di discriminazione.
L’iniziativa del Pci poneva un qualche problema anche alle organizzazioni sindacali, perché la materia era di stretta pertinenza sindacale, anche se la divisione sindacale rendeva difficile un intervento efficace su una materia così delicata. Per questi motivi, nonostante le evidenti differenze di giudizio tra i sindacati, si convenne unitariamente che fosse necessario dare anche uno sbocco contrattuale alla vicenda: fu richiesto alla Fiat una trattativa sul tema dei diritti sindacali. Dal punto di vista sindacale la questione fu posta in termini innovativi, cioè come dare strumenti adeguati alle rappresentanze sindacali per innovare la contrattazione e le relazioni sindacali in azienda, completando un processo che sembrava iniziato nella seconda metà degli anni ottanta. Il confronto avvenne in una fase in cui non era necessario “scambiare” delle contropartite, quindi le parti erano libere di affrontare i problemi senza l’assillo della situazione contingente; tuttavia i risultati non furono all’altezza delle aspettative.
L’accordo, firmato il 10 maggio 1989 tra Fim Fiom Uilm nazionali e Fiat, fu salutato dai mezzi d’informazione come l’inizio di una nuova fase di relazioni industriali, invece si muoveva sostanzialmente in un’ottica tradizionale. Nel campo dei rapporti sindacali stabiliva dei momenti di confronto periodici, a livello di gruppo e a livello di stabilimento per esaminare l’andamento delle relazioni tra le parti. Nel campo delle strumentazioni sindacali riconfermava quanto previsto nelle intese precedenti, dall’accordo del 5 agosto 1971 all’ultimo accordo del 18 luglio 1988; inoltre l’intesa prevedeva delle comunicazioni uniformi per tutti gli stabilimenti per quanto riguarda gli iscritti al sindacato e la gestione dei permessi sindacali, introducendo per questi ultimi una forma sperimentale di controllo sulle quantità del loro uso da parte delle singole organizzazioni sindacali. Sugli aspetti più innovativi, come la possibilità di utilizzare mezzi audiovisivi durante le assemblee sindacali, venivano introdotte una serie di norme che in realtà rappresentavano un ostacolo al loro utilizzo, come quella che prevedeva il preavviso di 6 giorni nell’eventualità di utilizzo degli audiovisivi; un passo in avanti invece rappresentava l’ipotesi di corsi di formazione per rappresentanti sindacali, che prevedeva l’istituzione di una commissione congiunta per elaborare il progetto formativo: alla luce dell’esperienza successiva questo sarà l’unico punto che produrrà qualche risultato; gli altri punti, informazione su superminimi e dotazioni tecniche dei locali sindacali interni, erano la conferma o addirittura il peggioramento delle situazioni di fatto esistenti o previste negli accordi precedenti, come la norma che prevedeva il sostanziale divieto di utilizzare i computer nelle sedi sindacali interne.
L’accordo non presentava una soluzione rispetto ai problemi di discriminazione, né delineava un nuovo modello di relazioni industriali. Complessivamente si può considerare un accordo poco utile sul piano concreto, servì unicamente a dare “l’immagine” che le parti mantenevano dei rapporti; tra l’altro sarà disatteso successivamente in molti punti per le evidenti incongruità con lo sviluppo delle pratiche sindacali.