Un altro aspetto che si innestò successivamente all’iniziativa del Pci fu l’indagine condotta dalla Pretura di Torino, già dai primi mesi del 1989, in merito all’uso dei medici di fabbrica della Fiat nei casi di infortunio sul lavoro, ipotizzando una violazione dell’art. 5 della legge 300/70. La questione era nata da un esposto dei rappresentanti sindacali Fim Fiom Uilm di Rivalta, precedente all’indagine sulle discriminazioni, che denunciava le pratiche aziendali tendenti a declassare in malattia molti infortuni sul lavoro. La cosa avveniva sotto la pressione della gerarchia e utilizzando le sale mediche aziendali: furono oltre 150 i testimoni che si presentarono dal magistrato.
Dopo l’apertura dell’inchiesta, la Fiat per ritorsione stabilì che le sale mediche aziendali avrebbero ridotto la loro attività agli aspetti minimi previsti dalla legge, senza più erogare una serie di servizi che avevano svolto in precedenza, creando evidenti disagi ai lavoratori.
La magistratura torinese raccolse sufficienti elementi per rinviare a giudizio l’amministratore delegato, Cesare Romiti, e i Responsabili del Personale delle principali società Fiat: ma nella seconda metà del 1989 il procedimento giudiziario si arrestò per l’istanza di ricusazione del giudice e di trasferimento del processo presentata dai legali della Fiat. In seguito lo stesso Procuratore generale di Torino richiese di spostare il processo in un’altra città “per pericoli di turbamento dell’ordine pubblico”; riproponendo la formula della “legittima suspicione” che era già stata utilizzata nel processo per le schedature Fiat negli anni settanta, ma questa volta la Corte di Cassazione negò la legittimità della richiesta di spostamento; tuttavia la successiva amnistia, nel 1990, portò all’archiviazione del caso.
Nel momento in cui diventa pubblico, con molto clamore, il procedimento giudiziario contro la Fiat le posizioni dei sindacati rimarcano nuove divisioni, accompagnate da reciproche polemiche. Durante lo svolgimento del processo si sviluppò una trattativa tra Fim, Fismic, Uilm e la Fiat, che portò a un verbale di riunione, il 10 novembre 1989, dove furono registrate le dichiarazioni politiche delle parti: era evidente che il “verbale di riunione” rappresentava un’iniziativa a favore del servizio sanitario aziendale, mentre era in corso un’indagine giudiziaria su gravi illeciti. Questa iniziativa portò poi a un accordo separato, il 1° dicembre 1989, sempre tra Fim, Fismic, Uilm nazionali e Fiat, che migliorava la presenza dei presidi sanitari aziendali in diversi stabilimenti, mentre contemporaneamente istituiva, in alcuni stabilimenti, le “Commissioni di partecipazione per la prevenzione e la sicurezza del lavoro” nell’ambito dei principali stabilimenti del Gruppo. I compiti di queste commissioni erano sostanzialmente di monitoraggio degli infortuni e di elaborazione di iniziative di sensibilizzazione dei lavoratori sull’uso dei mezzi antinfortunistici. Tuttavia l’accordo conteneva valutazioni positive sull’operato delle strutture sanitarie aziendali e individuava “come funzionalmente adeguato un modello privatistico”, inoltre auspicava una modifica delle normative di legge che “garantisca al lavoratore infortunato la libertà di scelta della struttura sanitaria a cui rivolgersi, essendo preminente in ogni caso il rapporto fiduciario medico assistito”. In sostanza l’accordo indicava al legislatore l’opportunità di modificare l’art. 5 della legge 300/70, introducendo la possibilità per il lavoratore infortunato di farsi curare dalla struttura sanitaria aziendale, legalizzando quindi alcuni comportamenti Fiat molto discutibili. Un successivo accordo separato, il 3 dicembre 1990, estendeva le Commissioni ad altri stabilimenti. Al di là di ogni altra considerazione, era evidente l’involuzione negativa che aveva assunto il rapporto tra le organizzazioni sindacali.