Con l’inizio degli anni novanta furono avviate una serie di sperimentazioni organizzative relative a quanto annunciato nel famoso seminario di Marentino nell’autunno del 1989: i più alti dirigenti della Fiat si riunirono per lanciare il “Piano della Qualità Totale”. Le nuove modalità organizzative si basavano su un insieme molto complesso di progetti di cambiamento, tra questi il più famoso era quello denominato “Fabbrica Integrata”, che si proponeva di cambiare l’organizzazione produttiva. Il modello di riferimento era quello dei produttori giapponesi, come il just in time, il miglioramento continuo del processo e del prodotto, in sostanza gli aspetti caratteristici della lean production, di cui la Fiat voleva importare la capacità di gestire gli elementi d’incertezza con risorse ridotte. Come altre volte nel passato, il cambiamento del modello organizzativo fu preparato con un’accurata indagine preliminare da parte di alcuni tecnici Fiat, in particolare sul modello organizzativo della giapponese Toyota.
Questa innovazione organizzativa cominciò a prendere forma nel corso del 1992 e tra le principali scelte di carattere gestionale adottate si possono individuare i seguenti aspetti:
- superamento del sistema organizzativo basato sull’efficienza delle singole funzioni e riorganizzazione sulla base dei processi aziendali, per superare la logica sequenziale nelle attività e la frammentazione del processo produttivo, favorendo invece la sincronizzazione e integrazione delle diverse fasi del processo, con l’obiettivo di ridurre i “tempi di arrivo” sul mercato (come i tempi di lancio dei nuovi modelli); a tale scopo fu elaborato un complesso sistema informativo che doveva monitorare il processo produttivo;
- il ridisegno delle responsabilità gestionali e delle strutture a livello di stabilimento, integrando le diverse funzioni, in modo tale che le Unità tecnologiche elementari (Ute) e le Unità Operative (l’insieme delle Ute all’interno della stessa tecnologia) fossero dotate della strumentazione tecnica necessaria per poter realizzare gli obiettivi produttivi richiesti e i miglioramenti incrementali necessari per migliorare processo e prodotto; tra queste strumentazioni era previsto un insieme molto elaborato d’informazioni che dovevano dare trasparenza all’insieme delle attività dell’Ute; in questo ambito realizzare una responsabilizzazione dei livelli più bassi dell’organizzazione, come l’autocertificazione della qualità da parte dei lavoratori diretti;
- il ridisegno delle professionalità esistenti, sia ridefinendo e riducendo i ruoli gerarchici, sia impostando nuove figure tecniche, per operare con elevati livelli d’integrazione; un esempio è il cosiddetto Conduttore di processo integrato (Cpi), una figura operaia che doveva avere il compito di operare “orizzontalmente” con gli altri segmenti del ciclo produttivo e “verticalmente” con i tecnici preposti per affrontare le disfunzioni tecnologiche e organizzative; in altre parole l’accumulazione di un nuovo sapere tecnico basato anche sul recupero dell’esperienza informale operaia; gli stessi operai comuni venivano coinvolti attraverso processi di rotazione generalizzati e altre attività di miglioramento produttivo.
La nuova filosofia organizzativa era destinata al miglioramento continuo del processo e del prodotto, alla riduzione dei materiali e delle scorte e di tutte le risorse necessarie per produrre; a tale scopo si dovevano attuare misure di prevenzione, tecniche di autocontrollo e di problem solving, con l’obiettivo di ridurre al minimo le varianze produttive. Con questi obiettivi furono definiti dei gruppi di lavoro (team) a livello di officina, con la partecipazione di diverse figure e funzioni professionali (tecnologi, manutentori, capi Ute, Cpi ecc.), che dovevano prefigurare un sistema di comunicazioni non gerarchico. Per l’implementazione del nuovo modello produttivo si utilizzò abbondantemente la risorsa della formazione, con corsi di diversa durata in funzione delle figure professionali da preparare. In una certa misura, gli aspetti d’integrazione tra le diverse funzioni potevano rappresentare un parziale superamento del modello taylorista, soprattutto nella rigida divisione tra funzioni esecutive e decisionali.
Come si può osservare vi sono alcune parole chiave del progetto, che era quindi molto ambizioso, soprattutto considerando la storica cultura “sabauda” della Fiat, molto legata a una concezione burocratico – fordista e per questo poco propensa a concepire la partecipazione e la responsabilizzazione dei diversi ruoli aziendali. La novità fu colta immediatamente anche al di fuori dell’azienda e del mondo sindacale poiché era evidente anche una sorta di autocritica sul precedente modello organizzativo e in particolare su quella che è stata definita “l’illusione tecnocentrica”. Tuttavia, era anche evidente la contraddizione tra la partecipazione richiesta ai lavoratori nel miglioramento del processo produttivo e il fatto che il cambiamento era gestito senza un vero rapporto contrattuale con i sindacati. In realtà il progetto poteva anche essere considerato una sfida nel confronto dei sindacati, proprio per l’implicita esigenza aziendale di conquistare il consenso dei lavoratori necessario alla partecipazione richiesta dal nuovo modello organizzativo.
Nel corso del tempo emersero una serie di contraddizioni nell’applicazione del nuovo modello organizzativo: in particolare vi era un’evidente differenza tra il progetto elaborato dalla Fiat e la sua effettiva realizzazione. Molte delle nuove modalità organizzative, quelle meno formali e più sostanziali che attenevano ai comportamenti e ai ruoli, restarono solo “sulla carta” o furono realizzate in alcuni reparti, ma non in altri. Queste difficoltà e differenze furono attribuite alle resistenze interne della gerarchia aziendale; nei fatti anche per quanto riguarda il rapporto con il sindacato, una parte del management Fiat lasciò trapelare che era in atto uno scontro di opinioni tra chi pensava di tenere fuori le rappresentanze sindacali dal nuovo progetto organizzativo e chi invece riteneva che queste potessero dare un contributo utile all’innovazione organizzativa e a rimuovere le resistenze della gerarchia aziendale. Si deve aggiungere che la seconda tesi non era infondata, poiché si sono realizzate molte ricerche che hanno ampiamente dimostrato come le aziende abbiano bisogno di un certo sostegno da parte dei rappresentanti sindacali per avviare con successo l’innovazione organizzativa. Inoltre anche dai massimi vertici aziendali arrivavano segnali di un nuovo rapporto con i sindacati, come sembravano indicare alcune dichiarazioni di Umberto Agnelli, nel maggio del 1990, relative all’ipotesi di un coinvolgimento dei sindacati nel Consiglio di amministrazione della Fiat e anche le dichiarazioni di Cesare Romiti, nel giugno del 1991, relative al positivo ruolo delle Rsu rispetto al miglioramento della qualità del prodotto/processo.
Per le organizzazioni sindacali il progetto aziendale d’innovazione organizzativa era visto favorevolmente, sia pure con sfumature diverse derivanti dalla diversa concezione del rapporto contrattuale: era considerato un’occasione per un ruolo più definito delle relazioni sindacali in azienda, date le istanze di partecipazione dei lavoratori che erano alla base del progetto. Diversa però era la situazione tra i rappresentanti sindacali in azienda le cui posizioni erano molto articolate, con divisioni che erano trasversali alle stesse organizzazioni di appartenenza: infatti, se da una parte vi era chi riteneva che il nuovo modello organizzativo fosse un’occasione per un ruolo più incisivo del rappresentante sindacale, anche sfruttando le contraddizioni insite nella stessa proposta aziendale tra il modello proposto e la tradizionale cultura Fiat, all’estremo opposto vi era chi riteneva che il nuovo modello organizzativo fosse una mossa “gattopardesca”, quindi un cambiamento limitato che in realtà non cambiava nulla o, peggio, un disegno per “fregare” meglio i lavoratori. Ovviamente queste diversità determinavano atteggiamenti diversi nei vari stabilimenti e gli stessi comportamenti della gerarchia aziendale giustificavano sia l’una sia l’altra posizione. In alcuni stabilimenti, come a Rivalta, i delegati sindacali ebbero la capacità di sviluppare iniziative che sfruttavano le contraddizioni tra i principi del nuovo modello organizzativo e i comportamenti concreti nell’organizzazione produttiva, sfidando l’azienda sul terreno della qualità del processo produttivo; tuttavia nel complesso le organizzazioni sindacali non ebbero la capacità di generalizzare queste esperienze e non sembrarono in grado di sviluppare iniziative ed elaborazioni adeguate a incalzare la Fiat sul terreno del nuovo modello organizzativo: questa carenza di dialettica forse contribuì a determinare l’applicazione limitata e frammentaria del nuovo modello organizzativo e la successiva involuzione negativa dello stesso. In ogni modo, alla prova dei fatti, il rapporto azienda-sindacati non andò molto oltre l’informazione sullo sviluppo dell’innovazione organizzativa, che restava ancorata a regole unilaterali; mentre la contrattazione restava sostanzialmente legata a logiche di centralizzazione, anche quando furono definite alcune sperimentazioni di stabilimento su un sistema di premi individuali che incentivava le proposte di miglioramento della qualità da parte dei lavoratori. In definitiva mentre il management Fiat sembrava che fosse ancorato alla visione tradizionale del sistema di relazioni sindacali, i sindacati, anche per le loro divisioni, non furono in grado di proporsi un’impostazione comune che allargasse gli spazi d’intervento sull’organizzazione produttiva.
Alla fine, pur con molte contraddizioni e problemi irrisolti, il complesso dei progetti messo in atto dalla Fiat determinò dei cambiamenti rilevanti nella struttura aziendale e nei processi produttivi, come la riorganizzazione della rete dei fornitori, che furono ridotti e selezionati con una decisiva riqualificazione del tessuto della componentistica, con una trasformazione da semplici fornitori di particolari a fornitori di componenti complessi, di cui assumevano la piena responsabilità progettuale, costruttiva e qualitativa. Alcuni dati forniti da Fiat Auto sono indicativi di questi processi: dal 1987 al 1997 il numero di fornitori diretti passa da 1200 a 350; nello stesso periodo si riduce la parte di prodotto fabbricata internamente da Fiat Auto, che passa dal 38% al 30% del valore del prodotto con un aumento degli acquisti esterni dei componenti. La quota di componenti progettate all’esterno passa dal 30% della Uno (1983) al 55% della Punto al 60% della Lancia K. Tutto ciò contribuì, assieme alle nuove forme di progettazione congiunta tratte dall’esperienza dei costruttori giapponesi, a ridurre i tempi complessivi di progettazione e avviamento dei nuovi prodotti, il cosiddetto time to market, aspetto fondamentale nella competizione del settore degli autoveicoli. Al riguardo si può notare che questi processi di cambiamento sono sempre più netti e determinati quando riguardano relazioni di mercato con soggetti esterni (come pretendere le forniture just in time da parte dei fornitori esterni), mentre diventano molto più contradditori quando si tratta di mutamenti interni che riguardano la cultura organizzativa aziendale; infatti, nel campo dei rapporti sociali interni si manifestò una maggiore vischiosità nel cambiamento. La difficoltà a controllare le proprie strutture interne ha probabilmente avuto anche forti conseguenze dal punto di vista economico ed è stata una delle ragioni delle crisi aziendali che si sono manifestate nel corso degli anni novanta e successivamente.
Le innovazioni organizzative furono particolarmente applicate nei nuovi insediamenti produttivi del Sud, proprio per le loro caratteristiche “greenfield”, meno resistenti alle nuove architetture organizzative e su cui ilmanagement puntava particolarmente le speranze per il rilancio di Fiat Auto.
L’accordo del 25 gennaio 1991, sottoscritto tra Fiat Auto e Fim, Fiom, Uilm e Fismic, introduceva sperimentalmente le “Commissioni di partecipazione” in alcuni stabilimenti (Rivalta, Cassino e Termoli), che avevano il compito di monitorare l’introduzione di un nuovo istituto premiante legato alle “Proposte Miglioramento Qualità”, un premio destinato a favorire il coinvolgimento dei lavoratori, incentivando coloro che presentavano proposte che miglioravano la qualità del processo produttivo e del prodotto, in un’ottica molto “giapponese”. L’accordo aveva un termine definito, il 30 settembre 1991, entro cui doveva concludersi l’esperimento. Un accordo successivo, il 26 gennaio 1992, stabilì di superare la fase sperimentale e di estendere il sistema a tutti gli stabilimenti di Fiat Auto. Il nuovo accordo prevedeva la scadenza del 31 dicembre 1993 per il sistema premiante, ma accordi successivi prolungarono nel tempo la validità del premio. Inoltre il sistema fu esteso progressivamente alle altre società del Gruppo. L’accordo non indicava l’entità del premio (stabilito dalla Fiat in un suo comunicato): prevedeva in ogni caso che il premio fosse limitato agli operai e intermedi, mentre erano esclusi gli impiegati: in questo modo si volevano premiare coloro che facevano una proposta al di fuori delle proprie specifiche competenze. L’entità delle proposte di miglioramento qualità fu notevole e s’incrementò nel corso del tempo, nella misura di alcune decine di migliaia, però la loro diffusione non era omogenea tra i diversi reparti e stabilimenti. In realtà si constatò che influivano molto i comportamenti dellagerarchia aziendale, che in alcuni casi favoriva il processo, in altri lo osteggiava, in altri ancora lo utilizzava a favore di alcuni lavoratori (il capo elaborava la proposta e poi la passava a un suo subordinato) in una logica di scambio reciproco di favori (disponibilità allo straordinario, ecc.). D’altra parte anche l’atteggiamento dei rappresentanti sindacali aveva un’influenza rilevante nel promuovere od osteggiare la diffusione delle proposte a fronte una certa diffidenza da parte dei lavoratori. Dove i rappresentanti sindacali erano maggiormente organizzati, il sistema delle proposte era utilizzato anche per migliorare l’ergonomia e ridurre gli elementi di disagio o nocività presenti, con il semplice “trucco” di trasformare vecchie e insoddisfatte richieste sindacali in proposte di miglioramento presentate da questo o quel lavoratore o da un rappresentante sindacale, cosa che rendeva immediatamente risolvibile il problema.