La trattativa per i nuovi stabilimenti del Mezzogiorno si avviò subito dopo all’accordo sul terzo turno a Mirafiori. Nel contesto Fiat era una trattativa anomala, preventiva rispetto all’avvio delle unità produttive, poiché gli stabilimenti erano ancora in fase di costruzione; inoltre si trattava di stabilire integralmente una normativa di riferimento, giacché i nuovi stabilimenti erano inseriti in due nuove società (Sata e Fma) che, per scelta Fiat, non applicavano gli accordi di Gruppo. In questo caso la Fiat intendeva sfruttare sino in fondo la logica green field insita nei nuovi insediamenti, utilizzando l’assenza di esperienze precedenti o di riferimento dei lavoratori neoassunti per innovare profondamente l’organizzazione produttiva, cercando di utilizzare la formazione professionale per un’applicazione integrale dei principi organizzativi del progetto Fabbrica Integrata, senza dover fare i conti con gli aspetti di resistenza al cambiamento tipici degli stabilimenti brown field. Nella prima fase solamente una parte dei 7000 lavoratori, previsti a regime per Melfi, era stata assunta, con lo strumento del contratto di formazione e lavoro e con un percorso formativo di grande intensità. Questi primi assunti erano destinati a costituire la struttura tecnica portante del nuovo stabilimento: l’età media era di 26 anni e complessivamente la scolarità media era superiore a quella del resto della Fiat.
La trattativa era partita in previsione dell’avvio della produzione (gennaio 1994) e l’accordo fu sottoscritto l’11 giugno 1993 e era sostanzialmente diviso in quattro normative: orario di lavoro, regole sulla prestazione, premio varabile di competitività e sistema di relazioni sindacali. Si trattava di un insieme di regole che rappresentavano una profonda innovazione rispetto a quanto stabilito negli accordi di Gruppo, così come i nuovi insediamenti industriali si presentavano profondamente innovati in termini di progettazione del lay-out e dell’organizzazione del lavoro. Questo quadro di regole rispondeva alle nuove impostazioni organizzative mutuate dall’esperienza giapponese: la strutturazione del flusso produttivo sui principi del just in time e sull’autoattivazione dei lavoratori per correggere immediatamente gli errori e le varianze che potevano intervenire.
L’orario di lavoro si basava su quanto stabilito nel precedente accordo del 18 dicembre 1990 relativamente all’utilizzo degli impianti a 18 turni settimanali; pertanto si stabilì per la produzione un particolare sistema di turnazione che individualmente implicava un ciclo di 6 turni di lavoro la prima settimana, ulteriori 6 turni la seconda e tre turni di lavoro la terza. Un turno comprendeva 7 ore e 15 minuti ininterrotti di lavoro, mentre la mezz’ora di refezione era spostata a fine turno. Inoltre, i rimanenti 15 minuti erano ricavati dall’assorbimento di una parte delle riduzioni d’orario contrattuali. In questo modo tra un turno di lavoro e l’altro si determinava una pausa di 45 minuti, da utilizzare teoricamente per intervenire su eventuali varianze produttive. Per i lavoratori il sistema di turnazione presentava il vantaggio di concentrare quattro giorni di riposo continuati. Contemporaneamente, però, richiedeva necessariamente la ripetizione dello stesso turno ogni tre settimane per evitare la ciclicità delle quattro giornate di riposo sullo stesso turno. La “ribattuta” del turno è particolarmente faticosa quando riguarda il turno di notte, con 12 notti di lavoro interrotte da un solo giorno di riposo intermedio. In conseguenza ai 18 turni della produzione la manutenzione è stata strutturata su 21 turni settimanali di 8 ore, in modo che può assistere la produzione nei casi di emergenza e effettuare gli interventi più complessi quando la produzione è ferma nella giornata di domenica.
Le regole sulla prestazione di lavoro riprendevano formalmente molte delle formulazioni degli accordi Fiat del 26 giugno 1969 e del 5 agosto 1971, ma includevano delle innovazioni rilevanti che cambiavano sostanzialmente le dimensioni quantitative della prestazione richiesta. In primo luogo è stata introdotto, come metrica del lavoro, il cosiddetto Tmc2, già applicato in alcune aziende della componentistica Fiat. Questo sistema di rilevazione dei tempi di lavoro implicava un incremento del rendimento stimato di circa il 20% superiore rispetto alla metrica normalmente utilizzata negli altri stabilimenti Fiat. A questo si deve aggiungere la particolare procedura di reclamo sui tempi di lavoro assegnati, che prevede una serie di fasi successive opportunamente cadenzate in termini di giorni (1^ fase – reclamo diretto al capo; 2^ fase – reclamo tramite Rsu all’ufficio analisi lavoro; 3^ fase – esame nella Commissione Fabbrica integrata). Questa procedura apparentemente dà razionalità alle eventuali controversie, in pratica però le lungaggini dei successivi rinvii, che prevedono un periodo complessivo di circa venti giorni, rendono inefficace la contestazione per il lavoratore; del resto l’incertezza dell’esito finale è accentuata dalla mancata previsione di adeguate informazioni in merito agli elementi che compongono i tempi di lavoro, da fornire alla parte sindacale quando il contenzioso arriva alla 3^ fase (Commissione Fabbrica Integrata). In secondo luogo l’accordo ha stabilito una prestazione lavorativa molto flessibile sulle linee di montaggio, con la possibilità di richiedere una prestazione più elevata (+10% della cadenza media della linea) quando ciò è richiesto per effetto del sovrappiù di componenti da montare, inoltre la possibilità di incrementare la velocità della linea di montaggio del 10% per recuperare le fermate tecniche e le fermate per decadimento della qualità del prodotto, con una cumulazione tra le due normative che consente un incremento massimo del 16% della prestazione lavorativa. A differenza dell’accordo del 5 agosto 1971 non sono previsti dei limiti per la saturazione massima individuale, che anzi viene aumentata con il meccanismo di far assorbire una parte dei fattori di riposo nei 40 minuti di pausa individuali. In pratica il lavoratore fruisce della pausa, ma circa la metà di essa viene recuperata con un aumento del rendimento durante il turno. Con l’insieme di queste norme i lavoratori Sata e Fma forniscono un rendimento lavorativo di gran lunga superiore a quello degli altri stabilimenti Fiat.
Un altro elemento d’innovazione è stato rappresentato dalla retribuzione, semplificata rispetto al Gruppo Fiat, poiché sono state eliminate tutta una serie di indennità e paghe di posto ormai congelate dagli anni sessanta. Invece, in aggiunta all’incentivo di rendimento, si introdusse un nuovo istituto, il premio di competitività, collegato a parametri di efficienza, qualità e livello di servizio. Si tratta di un premio mensile, che prevede anche una piccola parte “fissa”, che poteva essere misurato a livello di Ute, di Unità Operativa o di Stabilimento e il risultato poteva essere un intreccio tra tutte queste dimensioni aziendali. L’istituto presentava un certo interesse: un premio collegato alla concreta attività dei lavoratori e non agli astrusi calcoli sul bilancio aziendale. Si deve aggiungere che la retribuzione media dei lavoratori della Sata e Fma era in ogni caso inferiore a quella degli altri lavoratori del Gruppo (nel 1994, fatto 100 la retribuzione contrattuale di un lavoratore di Mirafiori, a parità di categoria il lavoratore di Melfi percepiva 88); inoltre anche la media delle categorie di inquadramento era più bassa, con tempi di passaggio alle categorie superiori più lunghi.
Il sistema di relazioni sindacali si proponeva di essere assolutamente diverso da quello tradizionale, essendo basato su principi di partecipazione, con l’istituzione di diverse commissioni congiunte, a livello di società, di stabilimento e di unità operativa, con il compito di affrontare i vari aspetti della condizione di lavoro e di prevenire e comporre i conflitti attraverso l’apposita commissione di conciliazione. Anche in questo caso non è stata seguita la strada del resto del Gruppo con l’istituzione dei Comitati previsti dall’accordo del 5 agosto 1971, ma l’insieme delle relazioni è basato soprattutto su diverse commissioni congiunte. Lo stesso monte ore di permessi sindacali retribuiti era inferiore a quello degli altri stabilimenti del Gruppo. La normativa stabiliva per le commissioni alcuni diritti d’informazione, competenze consultive e propositive, mentre i diritti contrattuali restavano di pertinenza della Rsu, anche se questi non sono state definiti, rimanendo sostanzialmente quelli previsti dal Contratto nazionale di lavoro. È opportuno aggiungere che dal confronto puntuale tra le commissioni e i comitati risulta indubbiamente un allargamento di alcune competenze in alcune direzioni: la formazione professionale e gli aspetti connessi con il premio di competitività; contemporaneamente, vi è una riduzione degli strumenti d’intervento sulle condizioni di lavoro affrontate dai comitati (cottimo, qualifiche e ambiente di lavoro). In effetti la Fiat teorizzava un superamento della contrattazione tradizionale a vantaggio dei meccanismi di partecipazione, insistendo molto sul binomio: realizzazione completa della Fabbrica Integrata – nuovo modello di relazioni sindacali. Il sistema di relazioni sindacali definito tendeva inevitabilmente a determinare un ambiente favorevole a un sindacalismo “collaborativo” e l’esperienza dimostrerà successivamente che forme di sindacalismo più “conflittuale” erano sicuramente osteggiate dalla Direzione aziendale.
Nel sistema delle commissioni di partecipazione sono stati rilevati alcuni difetti derivanti da una certa resistenza di una parte della gerarchia aziendale nel riconoscerne il ruolo, con alcune difficoltà nel realizzare gli eventuali interventi o iniziative assunte di comune accordo; inoltre le divisioni sindacali rendono oggettivamente difficile il lavoro delle commissioni. Un altro elemento è l’assenza di un’adeguata strumentazione e procedure d’intervento sugli altri aspetti delle condizioni di lavoro; ciò rende meno trasparente il sistema di relazioni sindacali e alla lunga comporta dei rischi per quanto riguarda l’efficacia del sistema di partecipazione. L’esperienza successiva dimostrò che il sistema di relazioni sindacali così impostato presentava ambivalenze e discrepanze, dovute anche all’ovvia inesperienza dei rappresentanti sindacali e alle divisioni tra i sindacati.
L’accordo dell’11 giugno 1993 provocò polemiche all’interno dei sindacati, soprattutto sugli aspetti relativi alla prestazione di lavoro: veniva rilevata la contraddizione rispetto al fatto che i lavoratori della Sata e di Fma guadagnavano sensibilmente di meno dei restanti lavoratori Fiat, con saturazioni e carichi di lavoro notevolmente più elevati. Inoltre, con la sottoscrizione di regole che superavano i criteri dell’accordo del 5 agosto 1971, si determinava nel Gruppo Fiat un’ulteriore frammentazione normativa sull’intensità della prestazione lavorativa, aspetto che creava differenze nella produttività del lavoro e quindi una destabilizzazione della contrattazione precedente. Il “ritorno” della prestazione lavorativa nella contrattazione avveniva dunque in termini diversi dal passato, con una miscela tra il tradizionale pressing sui tempi di lavoro e l’innovazione organizzativa. L’ambivalenza di questa soluzione lascia facilmente comprendere anche la duplicità dei sottosistemi organizzativi: da una parte le attività classicamente tayloriste e predeterminate e dall’altra attività di intervento sulle varianze e sugli elementi d’incertezza, in una logica di standardizzazioni successive dei miglioramenti ottenuti e di apprendimento organizzativo. Tutto ciò portava anche a una certa polarizzazione della forza lavoro, tra il nucleo tecnico più qualificato, che ha accesso a cospicue risorse di formazione, e la restante parte di lavoratori che ha una formazione molto limitata, inferiore a quanto programmato nel progetto iniziale, e mansioni molto semplici e ripetitive, dove spesso erano assenti quei processi di rotazione tra diverse postazioni che erano teorizzati come elementi importanti di formazione e di flessibilità organizzativa. In altre parole la figura dell’operaio parcellizzato della catena di montaggio fordista non è stata del tutto superata.
Gli stessi dirigenti aziendali avallarono la tesi che lo stabilimento di Melfi rappresentasse un parziale superamento del taylorismo-fordismo; ma anche il modello organizzativo di Melfi presentò nel tempo aspetti crescenti di differenza tra il progetto iniziale e la realizzazione pratica. Un esempio concreto è stata la politica aziendale per quanto riguarda la gestione del flusso produttivo: inizialmente la Direzione adottò una gestione paragiapponese, consistente nel fatto che la vettura che usciva dalla linea di montaggio doveva essere pronta per il mercato, senza quelle attività di “recupero” consistenti in interventi per correggere manchevolezze e difetti di produzione, che caratterizzano la produzione negli stabilimenti più tradizionali. Coerentemente a tale principio l’azienda aveva progettato il flusso produttivo escludendo le aree di “recupero” e aveva volutamente evitato la formazione delle figure professionali tipiche di questa attività: “revisionisti”, “levabolli” ecc.. Dopo alcuni anni però l’azienda non riuscì più a mantenere questo principio e alla fine costituì le sue unità di “recupero” e “finizione”, come negli stabilimenti più tradizionali. Ciò dimostra la difficoltà a governare le varianze e le incertezze produttive da parte di un’organizzazione ambivalente, che tende a incappare nelle disfunzioni tipiche dell’organizzazione fordista.