La vicenda di Taranto ha il suo epicentro nel siderurgico che le è stato imposto 60 anni fa, legando indissolubilmente le sorti del territorio a quelle della politica nazionale: dall’ abbaglio del boom economico alle flessioni del mercato, fino alle scelte spudoratamente sbilanciate a favore del solo profitto privato.
Gli interessi nazionali hanno spesso scavalcato quelli locali in favore di interessi di partito, di privati e di quei sindacati, che negli anni hanno firmato accordi peggiorativi, per tutta la classe lavoratrice. Nei decenni questo processo ha fatto degenerare il rapporto fra il complesso siderurgico ed il territorio che lo ospita, fino ad arrivare ad un livello spropositato di complessità ed articolazione, non più sul solo piano industriale ma anche e soprattutto su quello ambientale e quindi sociale.
Una complessità che ha richiesto l’intervento della magistratura, chiamata a pronunciarsi sull’eterna contrapposizione fra interesse pubblico e privato, compito non facilitato dai tanti decreti prontamente emanati a sostegno dell’ attività produttiva.
D’altronde lo stesso modello di “sviluppo economico”, con un’ agenda dettata dalle multinazionali, è stato imposto nelle aree dell’ intero arco ionico e del suo entroterra:
le attività estrattive in Basilicata, il Cova, di Eni e Shell, e Tempa Rossa, di Total e Shell, le centrali termoelettriche di Enel a Brindisi e Rossano, la raffineria ENI, sempre a Taranto, il termovalorizzatore di Massafra, costituiscono gravissime ingiustizie sociali e ambientali, che minano alla radice ogni eventuale futuro sviluppo economico e sociale di gran parte del Sud Italia. Queste politiche, che dovevano portare lavoro e benessere, ora costringono i territori a fare i conti con una serie infinita di difficoltà, a partire dall’ aumento esponenziale della disoccupazione (paradossale perché contemporanea ad uno spopolamento), fino agli allarmanti dati sanitari, ormai tristemente noti.
Elencare i risultati delle varie indagini epidemiologiche svolte sul nostro territorio è un esercizio doloroso che non vogliamo ripetere, perché è nota a chiunque (compresi i decisori politici), . la grave crisi sanitaria che attraversa Taranto e la sua provincia: l’inquinamento industriale ha causato un picco di malattie oncologiche e un aumento continuo di malattie rare e malformazioni congenite.
Allo stesso modo non esiste una realtà in Italia dove il ricatto occupazionale sia così pesante e feroce nei confronti dei lavoratori: se le informazioni sanitarie, sia pure con una certa difficoltà, sono alla portata di chiunque ed hanno subito una certa attenzione dal pubblico, il discorso cambia completamente circa le informazioni sul mondo che si cela dietro i cancelli dell’ acciaieria.
In un continuo “tutto deve cambiare perché nulla cambi” gli organi d’ informazione offrono una narrazione tesa ad avallare ed alimentare una conflittualità costante fra gli stessi lavoratori e una contrapposizione fra loro e i cittadini che ormai non è più realistica.
È sufficiente avere la volontà di confrontarsi con i dipendenti dell’ ex-ILVA e chiedere loro se effettivamente siano felici di lavorare in quello stabilimento, per rendersi conto che anche loro sono stanchi del clima di perenne incertezza economica, della mancanza di sicurezza sul lavoro, di un impiego in cui l’unica costante è sempre stata la pericolosità dell’aria che respirano.
Andando oltre le facili conclusioni, che vedono nella continuità produttiva l’unica strada percorribile a cui ci vorrebbero tenere addomesticati, crediamo invece che ad aver dichiarato guerra alla città siano i governi che di volta in volta attribuiscono alle opposizioni di turno, ai cittadini, ai soci privati e agli stessi lavoratori, le responsabilità di un fallimento che non si può più occultare.
Perché questo fallimento colossale non gravi interamente sulla comunità già provata ma si trasformi in una concreta riconversione, esiste una sola opzione praticabile:
– l’abbandono di qualsiasi ipotesi di riconversione parziale del siderurgico più grande d’Europa e la sua dismissione totale poiché già destinato dal mercato e dai contenziosi a chiudere definitivamente
– la riqualificazione della forza lavoro al fine di impiegarla nella bonifica dell’intero sito industriale da restituire alla città.
Una tale aggressione nei confronti delle persone e dell’ ambiente ha pregiudicato il presente e futuro di Taranto e della sua provincia, tanto da costringere alla fuga tanti giovani talenti: così quella generazione che oggi è chiamata a generare il futuro della propria terra risulta assente, scappata o mandata via, per creare un futuro migliore in posti dove è meno pericoloso vivere.
Alla luce di tutto questo nascono due esigenze imprescindibili: FERMARE questo sistema per impedirgli di continuare a procurare danni e sostituirlo con un programma di sviluppo che parta dalla rigenerazione del territorio e dal risarcimento alle comunità, per costruire un futuro concretamente vivibile.
Pretendiamo pertanto che la politica discuta e programmi una seria riconversione economica dell’intero territorio, che parta dallo smantellamento degli impianti dell’ ex-ILVA dalla riqualificazione di tutti i lavoratori che devono diventare i veri protagonisti della decontaminazione e della bonifica dell’intera area industriale.
I soldi del PNRR rischiano di andare in fumo in un vecchio altoforno, col solo scopo di rimandare di qualche altro anno i problemi di uno stabilimento che non produce più, che dà un lavoro precario a sempre meno persone, che ci uccide, e che si è rivelato essere un danno per l’indotto che doveva portare avanti.
Bisogna prevedere fin da subito l’estensione a tutti i lavoratori diretti ed indiretti dei benefici previsti in caso di esposizione all’amianto, forme di prepensionamento e risarcimento danni in base alla sentenza pronunciata dalla Corte Europea dei Diritti Umani del 5 Maggio 2022.
I fondi europei di sviluppo devono essere investiti:
• nel rilancio delle eccellenze del territorio: mitilicoltura, pesca, agricoltura, allevamento (comparti che da decenni vengono danneggiati dall’inquinamento industriale),
• nella filiera dell’ agroalimentare
• nell’ economia circolare
• nel trattamento delle patologie oncologiche e neurodegenerative
• nella ricerca accademica e l’applicazione di nuove cure per rispondere all’emergenza sanitaria del territorio
• nello sviluppo del porto, del turismo lento e sostenibile più che in quello crocieristico del “mordi e fuggi”
• nella cultura
• nel potenziamento delle infrastrutture e della mobilità sostenibile
Oltre all’inquinamento ambientale, l’ex-ILVA ha causato un inquinamento mentale e culturale, deprimendo la capacità creativa e le competenze culturali della classe dirigente e della comunità locali, portando alla migrazione verso altre città italiane e all’estero, perché certamente decidere di andare via resta una libera scelta ma si può scegliere soltanto in una condizione di pari opportunità, quelle che alla ns. città e la sua provincia sono state negate da sempre.
È giunto il momento in cui i nostri ragazzi, che il legame malsano con l’acciaieria l’hanno già spezzato, reclamino investimenti seri, congrui e spendibili sul proprio territorio quali l’istituzione di facoltà universitarie ad oggi inesistenti; la possibilità di formazioni professionali in ambito turistico e ambientale capaci di realizzare rapporti lavorativi sicuri con enti e figure territoriali già presenti; implementare attività di trasformazione delle risorse tipiche del territorio in una visione ecosostenibile e green.
Sperperare altro denaro pubblico non salverà la fabbrica assassina.
Noi non possiamo che farci trovare pronti.