Ai cancelli della nostra fabbrica, (proprio come nel 2008) si ritrova la passerella dei politici Italiani corresponsabili del declino industriale.
C’è una stucchevole ipocrisia tra i nostrani eroi del centrosinistra: lacrime di coccodrillo per la fine dell’industria automobilistica italiana, perché è di questo che si tratta, (e non del licenziamento per 97 lavoratori di Trasnova), per nascondersi dietro il senso di colpa di non aver mosso un dito quando i governi di dx e sx si sono resi complici di uno smantellamento del sistema industriale pubblico voluto da questa Europa e dalla globalizzazione dei mercati.
Ogni tanto bisognerebbe avere almeno il pudore di ammettere che a forza di compromessi, mediazioni, errori di valutazione e colpevoli omissioni, il senso della realtà è andato irrimediabilmente perduto.
Ritorniamo alla Fiat, Nel 2004, quando Marchionne si è insediato, l’Italia era all’undicesimo posto nella classifica mondiale dei produttori di automobili, sette anni dopo, grazie alle politiche industriali di Marchionne, l’Italia si posiziona al ventiduesimo posto, ma mentre i lavoratori piangono lacrime e sangue vi sono enormi profitti per gli azionisti.
Ma come denunciammo a suo tempo, il vero abbandono della Fiat avvenne il 10 giugno 2009, quando è stato firmato il contratto di acquisizione (da qui in poi il Contrattone) di Chrysler da parte di Fiat. In quel contratto – passato sotto silenzio di chi oggi sfila davanti ai cancelli– era già prevista la progressiva e inarrestabile fuga dall’Italia da parte di Fiat. In quel giorno, il 10 giugno 2009, la vecchia e gloriosa fabbrica automobilistica italiana ha stabilito di ridurre al minimo la sua presenza nel Paese di origine.
Ovviamente quello fu l’inizio del declino poi dopo l’abbandono di Marchionne le linee politiche continuarono indisturbate.
Tutto ciò non riguarda solo per Stellantis ieri Fiat, ma sono frutto di scelte politiche volute da questa Europa che pone come obbiettivo il libero mercato senza regole dove gli stati privi di sovranita’ devono semplicemente accompagnare tali processi.
L’industria Italiana si offre ormai come carcassa agli avvoltoi della peggiore politica di rapina. Ma è sulla carne viva del paese che quelli banchettano.
La globalizzazione delle merci voluta dal capitalismo finanziario di Bruxelless sottrae potere economico e finanziario allo stato nazionale mettendone in crisi l’autonomia e l’equilibrio interno tra le diverse classi sociali. La capacità dei governi di esercitare la loro sovranità interna si trasforma in una minaccia alla democrazia stessa che si manifesta con la diminuzione di fiducia nelle istituzioni democratiche, e con la deindustrializzazione del paese.
Il mercato globale del lavoro spinge le imprese a spostare i propri centri produttivi là dove il costo del lavoro è più basso. Pertanto la globalizzazione della competitività sui mercati è la causa di perdita di lavoro, diritti, stato sociale.
L’ imminente risposta che ci si aspettava, da forze politiche e sindacali, dovrebbe essere quella di rivendicare una politica completamente diversa, dove si pone l’uomo al disopra del capitale, una politica che riparta dalla riappropriazione della sovranità nazionale, che consiste nell’indipendenza non solamente formale di uno Stato che, non riconoscendo alcuna autorità al di sopra di sé, gode della possibilità di decidere il proprio destino.
L’avere accettato supinamente il luogo comune della inevitabile crisi dello Stato-nazione e quindi della naturale cessione della sovranità nazionale è stato un grave errore, specie da parte di settori della sinistra occidentale che hanno così perso la bussola trovandosi drammaticamente disarmati ed in balia dell’imperialismo (la cui esistenza avevano per ironia della storia rimosso).
La coerente adozione della questione nazionale suggerisce di basare lo sviluppo del paese su un qualificato intervento pubblico in economia. Contro i disordini e gli sprechi insiti nell’anarchia della produzione tipica del capitalismo e contro il nanismo che impedisce la ricerca e l’innovazione tecnologica occorre rilanciare la programmazione e la proprietà statale dei settori strategici. Per controllare le leve dell’economia ed orientare lo sviluppo è necessario promuovere la nazionalizzazione del settore creditizio (non delle sue perdite) ossia una banca nazionale. Questi sono solo alcuni dei cambiamenti necessari, ma come dicevamo le forze politiche e sindacali sono ben lontani da attaccare il sistema, ma rivendicano solo ulteriori stanziamenti affinche nulla cambi.
Per uscire dalla crisi la BCE e quell’impareggiabile collezionista di disastri economici che è il Fondo Monetario Internazionale ci chiedono di proseguire ancor più celermente sulla strada che ci ha portato sull’orlo del baratro. Perché?
Perché il loro obiettivo, ed in questo il capitale finanziario italiano e la Confindustria sono sostanzialmente convergenti con i poteri forti, è raggranellare tutto ciò che possono. Facendo soldi sulla speculazione nell’immediato, portando l’Italia a cedere parte delle sue rilevanti riserve di oro (le quarte al mondo) e a svendere le imprese a partecipazione statale (ENI, Finmeccanica) che tengono ancora in piedi il paese e che potrebbero rappresentare la base produttiva dalla quale ripartire per risalire la china. Infine spingendo per far applicare ancor più drasticamente le fallimentari ricette neoliberiste rifilateci in passato allo scopo di modellare un mercato del lavoro docile e schiacciato in fondo alla piramide della divisione internazionale del lavoro.
Siamo di fronte alla prima grande crisi del capitalismo. Dobbiamo combattere l’illusione che con un po’ di lotta poi si torna al bel tempo del compromesso sociale. Oggi dobbiamo capire cosa vuol dire rivoluzione. Quella che conosciamo occupò il Palazzo d’Inverno, oggi se andassimo a occupare Palazzo Chigi non ci troveremmo nessuno, perché il capitalismo sta da un’altra parte.
Insomma, se si vuole mantenere l’occupazione, il proletariato non deve arrendersi al capitalismo, rinunciare alla lotta di classe, alla rivoluzione, alla conquista del potere politico, ma lottare per costruire dal basso un’altra società dove la felicità sia lavorare meno ma tutti e in pace.