NIENTE DI PIU’ FALSO!!
Questo è quello che viene fatto intendere dalla Cgil, parte del PD, + Europa, insieme alle false sinistre, ma la realtà’ è ben diversa.
Quei referendum non abrogano il Jobs Act, sono iniziative che servono solo a coprire i vuoti di rappresentanza del sindacato dovuto alla loro sudditanza al potere padronale.
Prima un referendum a metà, per non suscitare malumori tra il PD e i vari partitini di sx ma sempre assoggettati ad esso, poi la botta finale. come promesso dal PD: sostenere la richiesta della Cgil per una legge sulla rappresentanza sindacale. L’obiettivo è far diventare legge l’accordo sul testo Unico sulla rappresentanza sindacale del 10 gennaio 2014, siglato da Confindustria e OO.SS e da tante OO.SS. di base, in modo da eliminare per legge quelle OO.SS. che rivendicano il conflitto di classe come strumento fondante di un sindacato. Strumento abbandonato da Cgil, Cisl e Uil dalla fine degli anni 89, poi ratificato con l’accordo sulla concertazione dei primi anni 90, artefice della fine del movimento operaio. Nel 2014 viene limitato fortemente il ricorso allo sciopero fino a prevedere forti penalità per i firmatari che non lo rispettano. Nella sostanza è la copia del contratto applicato nella FCA (oggi Stellantis) che in tante occasioni la Fiom si vanta di non aver firmato, ma in realtà lo ha firmato siglando l’accordo del 14 gennaio 2014 sulla rappresentanza.
Ma ritorniamo ai quesiti del referendum
In breve, la Cgil di Maurizio Landini ha proposto un referendum per abrogare alcuni passaggi del Jobs Act, non il testo completo della legge, una riforma varata nel 2014 dal governo Renzi, quindi dal PD, lo stesso che oggi è tra i sostenitori del referendum, (già questo dovrebbe far riflettere).
Con il primo quesito, la Cgil fa credere che si punta a cancellare le norme che permettono licenziamenti ingiustificati e illegittimi senza l’obbligo di reintegrare il lavoratore se assunto dopo il 7 marzo 2015.
Il secondo quesito affronta il tema del tetto massimo di indennizzo cui ha diritto un lavoratore licenziato in modo ingiustificato, se assunto in un’azienda con meno di 15 dipendenti. L’obiettivo è quello di superare questa norma stabilendo che sia un giudice a stimare il valore della compensazione economica. La Corte Costituzionale, tuttavia, era già intervenuta eliminando il limite massimo di indennizzo e riportando al giudice la valutazione.
Nel terzo quesito referendario si affronta il tema dell’estrema precarietà prevista nei contratti. Si mira a introdurre la causalità nei contratti a termine inferiori a 12 mesi ma poi si rimanda ai CCNL, da loro stessi sottoscritti, che prevedono l’aumento dell’utilizzo dei contratti a termine. In realtà quello sul reinserimento delle causali nel tempo determinato favorisce il contenzioso più che la stabilità del rapporto di lavoro, e non scalfisce il precariato previsto in diverse forme contrattuali siglate dalle tre OO.SS.
Il quarto quesito affronta il tema della sicurezza e si prefigge di modificare le leggi che governano il sistema degli appalti con l’estensione della responsabilità del committente per danni derivanti dagli infortuni sul lavoro subiti dai dipendenti dell’appaltatore.
In sostanza, quindi, i quesiti non aboliscono il Jobs-Act ma alcuni aspetti di quella corposa riforma.
Alcune di queste norme non sono state mai attuate. Altre sono state modificate, in particolare quella sul contratto a tutele crescenti che è ora oggetto del referendum della Cgil.
Il contratto a tutele crescenti prevedeva che più tempo si lavorasse per una azienda, maggiore fosse l’indennizzo che questa avrebbe dovuto offrire ai suoi lavoratori in caso di licenziamento.
La Corte Costituzionale ha già stabilito che il tempo passato in azienda non può essere l’unico criterio per definire l’indennizzo e ha rimesso nelle mani del Giudice la discrezionalità sul suo ammontare, fino a un livello massimo di 36 mesi.
Il contratto a tutele crescenti non esiste già più
perché è stato “superato”
Quindi parliamo di propaganda, e non solo. La Cgil pianta la bandierina e questa bandierina potrebbe produrre effetti paradossali: se si abolisse il riferimento normativo al Jobs Act attraverso il referendum, l’indennizzo massimo passerebbe da 36 a 24 mesi, come stabiliva la precedente riforma Fornero. Il risultato sarebbe esattamente opposto a quello che sostengono di voler ottenere.
Non viene ripristinato l’articolo 18 che era già stato depotenziato da vari interventi legislativi.
Nulla a che vedere con l’obiettivo di cui il sindacato si fa portatore, ovvero che il Jobs Act va “abolito”.
Questo referendum non abolisce il Jobs Act, in nessun modo. Il Jobs Act non viene neanche scalfito. Resta la riforma degli ammortizzatori sociali, che ha scaricato sui lavoratori le crisi aziendali. Con il Jobs Act si attuò una revisione completa degli ammortizzatori sociali, per quanto riguarda il sistema delle tutele in caso di cessazione del rapporto di lavoro. Tutto questo resta invariato.
Resta inoltre la centralità delle politiche attive e della formazione, che interessano le OO.SS. poiché partecipano alla loro gestione.
La possibilità di reintrodurre l’art.18 non è stata neanche presa in considerazione e già questo fa capire l’ambiguità’ della Cgil e dei falsi partiti di sx che sostengono tale Referendum. Avrebbero potuto richiedere un referendum per l’eliminazione della riforma del Jobs Act ma se ne son tenuti ben lontani, dopo tutto all’epoca non vi furono azioni di lotta forti della Cgil ma appena 4 ore di sciopero.
Come sempre continuano a mentire…