La rottura definitiva del periodo della collaborazione avvenne con le vertenze della fine del 1948 e dell’inizio del 1949. Nel 1948 iniziano anche i primi licenziamenti per rappresaglia ai conflitti sindacali, in particolare per i fatti successivi all’attentato a Togliatti. I conflitti in questione sono quelli della “non collaborazione”, attuata alla fine del 1948 e della “lotta dei tre mesi”, dal febbraio all’aprile del 1949.
La “non collaborazione” nasce come risposta a dei licenziamenti di quadri sindacali di fabbrica di cui si chiede la revoca: è un conflitto che dura circa un mese, durante il quale i lavoratori effettuano la produzione minima richiesta dalla curva di cottimo e richiedono istruzioni precise a fronte ogni inconveniente tecnico e si rifugiano dentro la stretta osservanza delle norme rifiutandosi di compiere i normali lavori estranei alle loro mansioni. La lotta, per le sue caratteristiche innovative, avrà ampia risonanza anche all’esterno: nei fatti è una lotta collettiva, ma si basa su singoli comportamenti individuali nell’ambito del lavoro, quindi è fondamentale una forte solidarietà. Si deve anche considerare che nel 1949 la Fiom conta 37.520 iscritti su 41.882 operai del complesso Fiat, quindi ha un’organizzazione diffusa e capillare che le consente di sfruttare rapporti di forza molto favorevoli. Per questo alla fine La Fiat accetterà la mediazione proposta dalla Fiom e dalla Cgil torinesi che prevedeva la trasformazione dei licenziamenti in dimissioni, con l’esclusione di un caso; contemporaneamente sarà garantita l’assunzione dei dimissionari in altre aziende.
La “lotta dei tre mesi” nasce da una serie di rivendicazioni economiche, con agitazioni e scioperi scoppiati in alcune sezioni della Fiat, in particolare tra gli indiretti in relazione all’ampliamento delle differenze del premio di produzione. L’esigenza di unificare tali vertenze con un’iniziativa complessiva indusse la maggioranza della C.I. a elaborare una proposta di premio di produzione generale collegato ai volumi produttivi di auto. Il presupposto era che i rilevanti investimenti avrebbero prodotto una forte crescita produttiva di autoveicoli e l’assumere come indicatore la produttività del settore auto avrebbe prodotto benefici anche agli altri settori che erano in crisi. L’intuizione sulla forte crescita nella produzione di automobili si rivelò esatta, ma al momento vi furono anche critiche, interne alla Cgil, sull’effettiva validità di questa previsione, in rapporto a uno sviluppo produttivo che allora sembrava ancora incerto. Si deve anche considerare che la vertenza era stata elaborata e condotta direttamente dalla C.I. senza consultare il sindacato esterno, con un’affermazione di autonomia che probabilmente aveva dato fastidio alle strutture sindacali esterne.
La “lotta dei tre mesi” fu realizzata con l’introduzione dello sciopero “a scacchiera”, un’ora al giorno articolata per reparti, che fu gestito in modo esemplare dalla C.I., senza dare all’azienda l’occasione per la “mandata a casa” dei lavoratori per mancanza materiali: nei fatti si determinarono forti perdite produttive valutate nell’ordine del 30-35%. Nella fase finale fu dichiarato anche lo sciopero generale a sostegno della vertenza dei lavoratori Fiat. Questo fu probabilmente l’ultimo conflitto sindacale di rilievo nazionale attuato alla Fiat in quel periodo storico. Il nucleo centrale di questa lotta furono gli operai “di mestiere”, quelli inquadrati in prima categoria, che pur essendo una minoranza (a Mirafiori erano circa il 15%) esercitavano un’influenza determinante sugli altri operai per le competenze professionali possedute. Lo scontro fu molto duro e governato solamente dalla Fiom, poiché le altre confederazioni si dissociarono. La Fiat cercò di applicare il principio “non si tratta mentre si sciopera”, che però era inapplicabile data l’incisività del conflitto; tuttavia fu effettivamente applicato negli anni cinquanta e restò in vigore fino al 1969; inoltre decurtò il premio di produttività ai lavoratori in sciopero, aprendo un contenzioso che si sarebbe protratto nel tempo.
La lotta si concluse con un compromesso il 1° giugno 1949, che istituiva il “superpremio” o “superincentivo”, un premio di produzione di stabilimento, dove l’indicatore era la quantità di produzione finale divisa le ore di presenza degli operai. La produzione finale era considerata in unità fisiche prodotte nella settimana: ciò rendeva particolarmente sicuro l’incremento salariale dei lavoratori al crescere della produzione. La produzione finale di riferimento non era solo quella dell’auto, ma era riferita ad alcuni stabilimenti di produzione terminale che erano in fase di sviluppo (Mirafiori, Materferro, Spa e Aeronautica), mentre gli altri facevano riferimento alla media di produttività ottenuta da questi stabilimenti.
Uno dei punti di principio nella rivendicazione sindacale era relativo agli aumenti uguali per tutti, tra diretti e indiretti, su cui l’azienda già in passato aveva espresso contrarietà: alla fine l’accordo stabilì che il premio fosse parametrato per categoria. In realtà qualche discussione ci fu anche all’interno del movimento operaio, se è vero che Battista Santhià prese posizione contro il livellamento retributivo attuato attraverso l’intervento del premio di produzione. In ogni modo il successivo accordo del 9 novembre 1949 sancì la progressiva differenziazione degli scatti del superincentivo al crescere della produzione e con quell’accordo si concluse anche il contenzioso sul premio di produttività non pagato ai lavoratori in sciopero nella “lotta dei tre mesi”. Un altro aspetto normativo rilevante era il collegamento tra erogazione del premio e presenza dell’operaio, con un evidente ruolo di disincentivo agli scioperi; fatto non sottovalutabile in un periodo in cui gli scioperi generali erano spesso dichiarati anche per motivi politici. Il “superpremio” sarà successivamente denominato “premio generale di stabilimento” nella contrattazione degli anni cinquanta.
Le polemiche non mancarono all’interno del movimento operaio: da una parte con la componente minoritaria della C.I., quella della Libera Cgil guidata da Arrighi, che si era dissociata dalla lotta dei tre mesi e che tuttavia partecipò attivamente alla conclusione della trattativa; dall’altra con una parte della Fiom e della Cgil, che riteneva sbagliata una politica rivendicativa che legava il salario alla produttività e che differenziava notevolmente il salario dei lavoratori Fiat da quello delle altre aziende, prefigurando in questo una rottura dell’unità di classe.