La guerra del Kippur del 1973 e il successivo rialzo dei prezzi del petrolio fecero precipitare e aggravare la crisi, che in Italia è accompagnata da un forte rialzo inflazionistico. Gli incrementi record del prezzo della benzina avrà inevitabili conseguenze sul mercato dell’automobile e già alla fine del 1973 si avvertono i primi segni del rallentamento della domanda, con immediati effetti sulla produzione. La prima crisi petrolifera aggravava, quindi, una situazione di mercato già compromessa, come dimostra la generale caduta dei tassi di produttività dei principali produttori di automobili, che avevano iniziato a registrare dati negativi prima ancora della Fiat e del 1969. Da parte sua, il governo interviene, nel febbraio del 1974, con misure che suscitano le proteste della Fiat: un forte incremento del prezzo della benzina, il blocco della circolazione nelle giornate festive e il blocco dei prezzi di listino delle vetture per 18 mesi. Sono misure che contribuiranno a deprimere ulteriormente il mercato degli autoveicoli, oltre a creare problemi aggiuntivi al bilancio dell’azienda; a differenza degli altri paesi industrializzati, che fecero politiche di sostegno ai produttori nazionali di autoveicoli, il governo italiano attuò una politica punitiva nei confronti dell’auto.
Il sindacato percepiva i rischi della crisi economica in atto e si muoveva per evitare il ricorso alle soluzioni economiche tradizionali, come era avvenuto con la stretta deflativa del 1964. In altre parole, il sindacato intendeva porre sullo stesso piano temporale risanamento e riforme, indicando in particolare lo sviluppo del Sud come uno degli aspetti prioritari su cui concentrare l’attenzione; inoltre rivendicando una politica di consumi collettivi, alternativa a quella dei consumi privati: la crisi dell’automobile doveva risolversi in un incremento del trasporto pubblico, quindi con una diversificazione delle produzioni Fiat, che doveva portare, forse con un eccesso di ideologismo schematico, a un incremento della produzione di autobus.
La linea “meridionalista” della Flm ebbe un forte consenso tra gli operai della Fiat, cui pesava ancora la condizione di immigrati, ma anche forti apprezzamenti nell’opinione pubblica; inoltre veniva incontro a una assoluta necessità della Fiat. La presentazione delle rivendicazioni sugli investimenti al Sud è accompagnata dall’offerta di un maggior utilizzo degli impianti per gli stabilimenti meridionali con l’utilizzo del regime d’orario 6 x 6 (sei ore al giorno per sei giorni settimanali). Oltre alle contribuzioni industriali il sindacato rivendicò modifiche sostanziali dell’organizzazione del lavoro con la ricomposizione delle mansioni più parcellizzate e la sperimentazione di isole di montaggio sul modello della Volvo. Per quanto riguarda la retribuzione le richieste erano la mensa a 100 lire il pasto, l’aumento della quattordicesima erogazione da 95.000 a 170.000 lire annue, la parificazione al livello più alto del premio generale di stabilimento, un aumento di 40 lire orarie e la perequazione dei superminimi aziendali.
La trattativa iniziò a metà novembre e inaspettatamente da parte aziendale vi partecipò l’amministratore delegato, Umberto Agnelli che, anche attraverso un documento, sembrò indicare nel sindacato un interlocutore privilegiato per l’azienda, contemporaneamente prospettò una politica di riconversione produttiva, in particolare in direzione della produzione di autobus, anche se condizionata alle scelte finanziarie dello stato.
La crisi però incalza e alla fine di novembre la Fiat pone in cassa integrazione migliaia di lavoratori. Il primo sciopero, il 4 dicembre, riesce solo parzialmente; mentre migliora la partecipazione allo sciopero successivo, il 12 dicembre, che è anche uno sciopero generale di tutte le categorie. La vertenza si concluse alla fine del febbraio del 1974, con la mediazione del Ministro del lavoro, Luigi Bertoldi, dopo una serie di iniziative sindacali, tra cui lo sciopero del 25 gennaio, che ha una partecipazione elevata. In generale, però, la partecipazione agli scioperi presentava delle difficoltà, soprattutto per effetto della cassa integrazione, che coinvolgeva migliaia di lavoratori. Alla fine la Fiat firmò l’accordo dichiarando che aveva ceduto alle richieste del sindacato perché costretta dalla mediazione governativa, da essa stessa richiesta: il costo stimato dell’accordo era di circa 100 miliardi di lire.
L’accordo fu firmato formalmente il 9 marzo 1974, prospettando ampi interventi, in termini di investimenti aggiuntivi e di occupazione, in diverse aree del Mezzogiorno. In particolare nel settore del trasposto pubblico fu stabilita una nuova iniziativa produttiva con uno stabilimento per la produzione di autobus, in seguito localizzato a Grottaminarda (Avellino). Inoltre furono concordate una serie di investimenti aggiuntivi nel settore dell’Auto, sia con nuovi stabilimenti (Val di Sangro e Piana del Sele), sia con ampliamenti di stabilimenti esistenti (Termini Imerese, Cassino); analoghe iniziative furono concordate per altri settori industriali (Lecce, Reggio Calabria, Bari e altre località individuate successivamente). La Fiat era anche impegnata a erogare delle contribuzioni agli enti locali dove erano insediate le nuove iniziative industriali, nella misura dello 0,8% del monte retributivo annuo degli occupati, a titolo di finanziamento dei trasporti per i lavoratori.
Un altro punto qualificante dell’accordo è relativo alle trasformazioni dell’organizzazione del lavoro, che si sostanzia in un investimento di 10 miliardi per il 1975, per migliorare le condizioni di lavoro in termini di sicurezza, ecologia, riduzione della gravosità ecc.; inoltre, si prevedeva la realizzazione di forme di lavoro “ad isole”, che superasse, nelle operazioni di montaggio finale, il rigido vincolo della catena di montaggio e favorisse l’arricchimento professionale dei lavoratori attraverso la ricomposizione e la rotazione di più mansioni. In particolare venivano individuati i montaggi di due stabilimenti: il montaggio motori della 126 a Termoli e il montaggio delle vetture 128 a Rivalta, per la sperimentazione di questi nuovi modelli di produzione.
In termini di diritti sindacali si superava un contenzioso aperto dopo l’accordo del 5 agosto 1971, a proposito della rigida divisione di competenze tra i diversi Comitati che impediva un esame completo delle materie che riguardavano aspetti diversi (ad esempio: prestazione del lavoro e qualifiche), con la possibilità di unificare i diversi Comitati, in determinate occasioni, discutendo allo stesso tavolo tutti gli aspetti della condizione di lavoro. Anche per gli impiegati veniva introdotto un inizio di articolazione dei Comitati, in ragione dei quattro principali raggruppamenti di impiegati (Mirafiori, Rivalta, Veicoli Industriali e Corso Marconi).
Dal punto di vista retributivo si stabiliva un sostanzioso contributo aziendale al prezzo della mensa; mentre sugli aspetti retributivi veri e propri venivano attuati degli interventi più complessi:
- Incremento della quattordicesima erogazione da 95.000 a 160.000 lire annue.
- Unificazione del Premio di produzione mensile di stabilimento al livello più elevato raggiunto (Sezione Fonderie per gli operai e Ferriere per gli impiegati), che pertanto diventava il Premio di produzione Fiat, che è ancora oggi in funzione. La formula di calcolo del premio rimane sempre la stessa (produzione mensile / ore di presenza), solamente che sarà applicata sommando l’insieme dei risultati dei diversi stabilimenti. La scala di riferimento va da un valore base di 250 punti, che corrispondeva a 28.277 lire mensili per un 3° livello, a un massimo di 450 punti, che corrispondeva a 44.877 lire, sempre per un terzo livello.
- I valori del nuovo Premio di Produzione furono realizzati con assorbimenti di voci da altri istituti aziendali (per gli operai 6000 lire dall’incentivo di rendimento, per gli impiegati l’aumento derivante dall’accordo del 5 agosto 1971); inoltre furono effettuati degli assorbimenti dagli “aumenti al merito”, come erano definiti i superminimi erogati unilateralmente dall’azienda.
Come aspetto applicativo dell’Inquadramento Unico si sancì il superamento della ex 3° super, introdotta dall’accordo del 26 giugno 1969.
Fu calcolato che, mediamente, il nuovo accordo portasse un aumento mensile pari a 18.000 lire mensili a cui si doveva aggiungere il contributo aziendale giornaliero di 200 lire al prezzo della mensa.
Nella parte retributiva vi erano quindi due aspetti innovativi: da una parte la trasformazione del premio di stabilimento in un premio di Gruppo; dall’altra la scelta degli assorbimenti, che fu attuata per tentare di intervenire sulle erogazioni unilaterali dell’azienda. Questo intervento fu completato con il diritto a una comunicazione annua da parte aziendale sui livelli medi degli aumenti al merito, suddivisi per categoria. La logica degli assorbimenti degli aumenti al merito rispondeva evidentemente a un tentativo di controllo sindacale sulle retribuzioni e alla politica dell’egualitarismo particolarmente sostenuta dagli operai comuni; tuttavia su questo punto ci furono anche reazioni negative da parte dei lavoratori professionalizzati.